martedì 30 aprile 2013

Manchester #2: The Stone Roses - The Stone Roses (Silvertone 1989)




01 I Wanna Be Adored 4:52
02 She Bangs the Drums 3:42
03 Waterfall 4:37
04 Don't Stop 5:17
05 Bye Bye Badman 4:00
06 Elizabeth My Dear 0:59
07 (Song for My) Sugar Spun Sister 3:25
08 Made of Stone 4:10
09 Shoot You Down 4:10
10 This Is the One 4:58
11 I Am the Resurrection 8:12

Ian Brown: voce
John Squire: chitarre
Mani: basso
Reni: batteria, cori, pianoforte (2)

Che l'omonimo debutto degli Stone Roses sia il manifesto del Madchester lo sapete tutti. Che senza di esso non ci sarebbe stato il Britpop lo sapete tutti. Che la voce strascicata di Ian Brown, la chitarra multiforme di John Squire, il basso melodico e propulsivo di Mani e il drumming virtuoso e iperattivo di Reni pongano i quattro tra i migliori musicisti del loro decennio lo sapete tutti. Che la loro fusione della nascente cultura rave con la sublimazione di 3 decenni di pop britannico abbia avuto un impatto devastante sulla musica di Albione lo sapete tutti.

Ma.

Questo disco è una rivincita. La rivincita di Manchester che, nel corso del decennio, da grigia e anonima città industriale è diventata capitale del pop a tutti gli effetti. La rivincita di una generazione castrata dal Thatcherismo, che trova nell'Ecstasy il carburante per la seconda estate dell'amore. La rivincita di quattro ragazzi del Nord dell'Inghilterra, la cui tracotanza non è certo stata conquistata senza fatica.

Questo disco è una dichiarazione coraggiosa e ottimista sbattuta in faccia a Maggie, che raccoglie il disagio dei predecessori Joy Division e Smiths, tramutandolo in un gigantesco fanculo a tutto e tutti, dalle autorità alla religione alla famiglia, e allo stesso tempo in un inno a tutto ciò per cui valga la pena vivere: amore, realizzazione di se, volontà di cambiare e lasciarsi alle spalle un passato tetro e difficile. Questo disco è il sole dopo la lunga tempesta, l'estate dopo il lungo inverno.

Questo è il mio disco preferito, e se non vi sta bene attaccatevi al cazzo.

venerdì 18 gennaio 2013

Manchester #1: Buzzcocks - Singles Going Steady (EMI 1979, 2001)


1 Orgasm Addict (Howard Devoto, Pete Shelley) 2:00
2 What Do I Get? (Pete Shelley) 2:52
3 I Don't Mind (Pete Shelley) 2:16
4 Love You More (Pete Shelley) 1:47
5 Ever Fallen in Love (Pete Shelley) 2:39
6 Promises (Steve Diggle, Pete Shelley) 2:34
7 Everybody's Happy Nowadays (Pete Shelley) 3:09
8 Harmony in My Head (Steve Diggle) 3:06
9 You Say You Don't Love Me (Pete Shelley) 2:54
10 Are Everything (Pete Shelley) 3:59
11 Strange Thing (Pete Shelley) 4:10
12 Running Free (Steve Diggle) 3:14
13 What Ever Happened To? (Alan Dial, Pete Shelley) 2:12
14 Oh Shit! (Pete Shelley) 1:34
15 Autonomy (Steve Diggle) 3:41
16 Noise Annoys (Pete Shelley) 2:49
17 Just Lust (Alan Dial, Pete Shelley) 2:58
18 Lipstick (Steve Diggle, Pete Shelley) 2:36
19 Why Can't I Touch It? (Steve Diggle, Steve Garvey, John Maher, Pete Shelley) 6:32
20 Something's Gone Wrong Again (Pete Shelley) 4:29
21 Raison D'etre (Pete Shelley) 3:34
22 Why She's the Girl from the Chainstore (Steve Diggle) 2:26
23 Airwaves Dream (Steve Diggle) 3:54
24 What Do You Know (Pete Shelley) 3:15

Registrato tra  settembre 1977 e dicembre 1980

Pete Shelley: chitarra, voce solista
Steve Diggle: chitarra, voce
Steve Garvey: basso
John Maher: batteria
Garth Smith: basso (1, 13)
George Born: violoncello (11)
Joe Sax: sax (23)
Henry Lowther: tromba (23)
Leslie Condon, Peter King, Stan Robinson: ottoni (24)

Che dire, qua nascono un po' di cose: la scena musicale di Manchester, che da grigia e anonima città industriale del nord dell'Inghilterra assurgerà al ruolo di capitale del pop, e un modo nuovo di intendere il punk, che tanto farà scuola negli anni a venire.
Non più i testi demenziali dei Ramones, la militanza sociopolitica dei Clash o il bieco nichilismo dei Sex Pistols, ma l'adolescenza in quanto tale: masturbazione (Orgasm Addict, primo singolo della band), amore complicato (What Do I Get, comparsa anche in una scena di Ghost World di Terry Zwigoff, e soprattutto Ever Fallen In Love (With Someone You Shouldnt've), senza dubbio il loro pezzo più famoso), ma anche sferzante sarcasmo (Everybody's Happy Nowadays) e inquietanti visioni distopiche (Airwaves Dreams).
I Buzzcocks devono sicuramente la loro notorietà soprattutto ai loro singoli piuttosto che ai loro veri e proprio album, e quindi è giusto esaminarli attraverso questa raccolta che, nella riedizione del 2001, racchiude tutti i singoli pubblicati dalla band nel primo periodo di attività, ne mostra l'evoluzione stilistica (a patto che ordiniate i brani in ordine cronologico di pubblicazione, essendo che la tracklist del disco mette i più facili e accattivanti lati A nella prima parte e i più sperimentali lati B nella seconda) e merita assolutamente di stare a fianco, e in certi casi anche qualche spanna sopra, di lavori ben più blasonati come Never Mind The Bollocks o London Calling.
Il loro è uno stile che alla schiettezza e all'immediatezza del punk (non quello distruttivo dei Sex Pistols, quello proletario dei Clash o quello horror/shock dei Damned, ma quello immediato, esuberante e contagioso dei Ramones) unisce un ottimo gusto per la melodia pop che varrà loro il soprannome di Beatles del punk rock, nonché una certa attenzione per il krautrock dei Can (non dimentichiamo che Steve Shelley è sempre stato grande ammiratore del loro chitarrista Michael Karoli) e il techno pop dei Kraftwerk che impazzava per l'Europa in quegli anni, influenza che si farà vedere soprattutto nelle fasi finali della carriera dei nostri (andando a pescare fuori dal disco in esame, cercatevi la title track del loro commiato A Different Kind Of Tension). Influenze, queste ultime due, che non compromettono la fruibilità della musica del quartetto.
Volendo spiegare in poche parole o, meglio, in pochi minuti o, meglio, in una canzone, cosa sono i Buzzcocks, citerei senza indugi Autonomy, lato B di I Don't Mind: la melodia beatlesiana della strofa contrasta fortemente con il rabbioso riff di chitarra e il minaccioso ritornello, per poi sfociare in una parte chitarristica molto "ritmica" e ripetitiva, alla maniera del krautrock. Tutto questo in 3 minuti e 45 secondi.
La loro influenza su chiunque si cimenterà in generi come post-punk, new wave e pop-punk, nonché su molta della scena underground degli 80s americani (Hüsker Dü e Replacements soprattutto) e sul britpop è forte e indiscutibile: se non li conoscete, vi manca la chiave di lettura di quasi 20 anni di musica.